L'Onagro Maestro
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::TRANSOXIANA::

Simone Cristoforetti

Una premessa un po’ più ampia


Una sera di qualche tempo fa’, in un bacaro veneziano, ci ritrovammo in tre, amici d’elezione, Matteo Compareti, Simone Cristoforetti e Rudi Favaro, a riflettere su come onorare non indegnamente chi quel triangolo – figura di per sé carica di particolare dinamismo – aveva decisamente contribuito a costituire. (Dei tre è nell’ordine il secondo a prendere qui la parola, o meglio la penna, e ciò non certo per merito particolare: forse, solo per anzianità). Va da sé che, trattandosi di triangolo necessariamente equilatero, non v’è certo un vertice che possa distinguersi dagli altri. E così le poche righe a seguire hanno l’ardita modestia di proporsi quale point de vue comune all’intera figura piana. Quale sentire co(ndi)visibile da tutte e tre le singole angolature. Privo dei suoi abissi, il mare non sarebbe tale, e la nostra piana figura – pensavamo – non conoscerebbe il respiro della terza dimensione, se priva del comune “quarto vertice”. Quello sì vertice essenziale e primo, cui fanno capo aggettanti lati–ponte; quello sì indispensabile a determinare, a definire il solido prisma, che di indistinta luce fa brillio multicolore.

E se di Ismaele si è detto “Sarà come un onagro nella steppa…”, a indicarne la fiera possanza, non va dimenticato che, per la stirpe di Ismaele, è l’onagro risposta vivente a ben più sottili quesiti, visto che nelle viscere della sua pancia sono celati tutti i segreti del mondo. Gli spazi, i più vasti, quelli che ai più incutono solo timore, sono per lui eletta dimora.

In ogni caso, dal dire al fare c’è di mezzo molto mare, e fu forse il fatto di trovarci in una città di laguna, resa percorribile da quel suo gran numero di ponti (che sono legami, congiunzioni, unioni, ma anche il luogo della dura prova nell’imprescindibile singolarità dell’archetipo), ad assisterci in questo volo terracqueo – invero non facile per allievi non ancora del tutto “svezzati” e comunque propensi a certa autonomia – consistente nel dar corpo a un’idea, che volle essere in primis uno spontaneo fluido omaggio a chi ci dà spessore e dimensione, in secundis – e le seconde ragioni, come i secondi fini, hanno sempre un che di inconfondibilmente terrestre – il tentativo di mettere in pratica un certo modo di vivere l’esperienza di studio come collaborazione, come reciproci fruizione e dono del sapere, in linea con gli insegnamenti più veri, quelli che non è possibile imparare durante le ore di lezione, ma che è impossibile dimenticare una volta ricevuti. Tentativo – si diceva – e tutto terrestre: quindi volo, sì, ma raso terra; immersione, sì, ma non certo da provetti pescatori di perle, anche se di questi ultimi ci è rimasto l’anelito al fuoco che, scottando, asciuga la pelle.

Per chi abbia in mente di pubblicare un volume miscellaneo di questo genere – si sa – non è certo semplice cosa operare le necessarie scelte in merito. E, dopo qualche tentennamento dovuto a questioni più di ordine pratico che di sostanza, per una sorta di presa di posizione assolutamente antipolitica – puramente ideologica, semmai – si è pensato di suddividere il volume in due sezioni. Una prima parte contiene i contributi di allievi del Maestro – un Maestro che non è solo un islamista e un iranista – accomunati dalla non appartenenza ufficiale al mondo accademico (si può anche parlare, volendo, di una condivisa sorte del precariato); una seconda è dedicata ai commenti di vari specialisti, contattati in base ai legami di amicizia con il festeggiato e per notoria competenza in materia, sulla vasta e multiforme sua produzione (per il cui dettaglio si rimanda alle pp. ??). Questi ultimi hanno così formulato le proprie considerazioni, tenendo sott’occhio soprattutto, ma senza alcun obbligo di esclusività, la parte di detta produzione afferente alla disciplina di loro più immediata pertinenza. Se, poi, all’insieme risultante si è voluto aggiungere il contributo di qualche altro autore in linea di principio non appartenente alla cerchia degli “eletti” (“precario” o meno) come sopra definita, poco male. A quell’autore va senz’altro riconosciuto il merito di aver pensato, pur non avendo avuto modo di intraprendere più vaste iniziative, a qualche cosa del genere, e di aver offerto per tempo – si sa, i soliti fastidiosi quanto imprescindibili “tempi” dell’editoria tutta – il proprio personale omaggio. Non saranno certo i volonterosi a risultare penalizzati – ci si disse – e, in fondo, in casi di questo genere le linee di principio comportano davvero più limiti che vantaggi. Quando invece, pur dopo reiterate promesse in altro senso, qualcuno degli “eletti” ha comunque mancato di inviare il proprio materiale, si è preferito dar la colpa al Tempo (che altro fare?), senza starci a chiedere da quali singolari sue estrosità la cosa dipendesse. Si consideri, quel che dunque è finito col risultare inevitabile lacuna, un’idea in potenza, una futura occasione a ben fare per chi in qualche modo sentisse di dovere/potere colmare quel vuoto in altra sede. Così, se l’impostazione generale non si può certo dire esente da imperfezioni, trattasi pur tuttavia di quel tipo di difetti che hanno le cose fatte in casa: molto semplici, magari, ma difficilmente imitabili. Del resto, peu de moyens, beaucoup d’effets.

Va in ogni caso ricordato che gli effets qui presentati si sono potuti affidare alle stampe grazie ai moyens cortesemente messi a disposizione dei curatori da numerosi privati cittadini a cui va il nostro sincero ringraziamento.

Fin qui, la genesi.

Ma l’occasione? Perché un sadè – si chiederà taluno – e non il più usuale compleanno? E quale relazione tra un omaggio di questo genere e la festa del fuoco dei persiani?

Se è il caso qui di menzionare ancora una volta il Tempo che, con i suoi capricci, in vista della ricorrenza di fine gennaio, ci ha assistito più che per un’appropriata celebrazione del dì natale, concedendo a tutti noi giorni quanti ne servivano, va subito chiarito che, per scopi come quello che ci eravamo prefisso, il sadè non è certo occasione meno adatta del più frequentato compleanno.

Collocata, in tempi moderni, nel mediano dei tre ultimi lividi giorni di ogni gennaio, la festa di sadè segna la punta estrema dei rigori della cattiva stagione, a cui non a caso si riferiscono gli inusuali ritratti del Maestro qui trascelti. Una leggenda alpina – erede di quella più antica di ovidiana memoria e pur sempre di sapore incontestabilmente eurasiatico nell’inconfondibile tinteggiatura iranica – narra di come quegli algidi giorni, là detti “della merla”, fossero così voluti da un malevolo e permalosissimo Gennaio/Inverno che li dotò del terribile gelo dei venti di bufera al preciso scopo di annientare un tenace temerario volatile – a quel tempo (che tempo già non è) ancor bianco del pallore di Zal – il quale aveva osato canzonarlo, mettendone in dubbio le ben note capacità refrigeratorie. In seguito alla durissima prova, superata grazie al provvidenziale riparo offerto dalla fessura di un comignolo (dove c’è fumo, c’è fuoco; dove c’è il fuoco, c’è il calore di una scoperta che implica una Storia…), il nostro uccelletto si ritroverà completamente annerito, a eccezione del becco, che aveva proteso all’esterno della fessura per poter respirare durante quei tre giorni tristi. Nero, e per sempre. Segnato non poco, dunque, ma non per questo sopraffatto, in quella spietata partita giocata in tre tempi, come ogni duello che si rispetti. Ecco che, allora, tra i due, a uscirne quantomeno scornato fu proprio l’Inverno, che da quel momento si va oggettivamente attenuando. Tanto si festeggia. E non solo tra le piane del Kerman e l’Anatolia… Come dire: il peggio è arrivato? Il peggio è passato! D’ora in poi solo miglioramento; magari lento, sulle prime, ma progressivo, incontrovertibile, in una sorta di visione dell’anno “alla cinese”: si può riempire solo quel che è vuoto, solo la notte illuminare… C’è però dell’altro.

Vorrei cogliere qui l’occasione per formulare alcune personali considerazioni circa le implicazioni cosmologico-calendariali di un monumento di Iran ispiratemi dalla lettura del recentissimo saggio del Maestro dedicato alla figura di Shirin1, la moglie cristiana di Cosroe II. In una nota di p. 119 leggo: “Il motivo della bara di cristallo sospesa è tipico di personaggi che dialogano con i cieli. Questo potrebbe essere dunque un punto di congiunzione tra Daniele e Sergio”. Al di là del rapporto tra i due indagato dal Maestro, a proposito di personaggi in dialogo con i cieli e di loro bare sospese, nel passo, pare implicita la notizia riportata da al-Jannabi nel suo Badayi‘ al-athar fi nawadir al-hikayat2, secondo cui il corpo del principe ziaride Qabus b. Woshmgir sarebbe stato composto in una bara di cristallo riempita d’aloe, sospesa mediante catene alla volta della torre da questi fatta erigere quale proprio mausoleo, il celeberrimo Gonbad-e Qabus (figg. X-X), nelle vicinanze dell’oggi omonima città caspica iraniana.

Effettivamente il laqab del principe richiama in modo deciso una sorta di vocazione all’ascesa, e va ricordata, da questo punto di vista, l’affermazione di Sh. Blair3 secondo cui “the solar date” – che, a Gonbad-e Qabus, compare per la prima volta in un’iscrizione monumentale – “was an apt literary allusion to Qabus’s title shams al-ma‘ālī (sun of eminences)”. Ma si tratta solo di allusione letteraria? O dietro quella prima attestazione ufficiale si cela anche qualche cosa d’altro?

L’edificio in questione, noto soprattutto per lo spettacolare effetto scenografico prodotto da quella sua silhouette di missile che si staglia in una grande piana spoglia per un altezza di 51 m. al di sopra di un terrapieno di circa 10 m., sorprende da più punti di vista, celando interrogativi in parte ancora irrisolti. Sh. Blair4, facendo riferimento alla ben nota fama di esperto calligrafo e di abile astronomo del principe ziaride, afferma che “these interest and avocations clearly played a role in the design of the Gunbad-i Qabus”. Ma che tipo di ruolo? È su questi interrogativi che vorrei incentrare l’attenzione.

Durante gli scavi condotti alla fine del XIX sec. all’interno del mausoleo da un distaccamento dell’esercito zarista, sotto la guida del generale I.T. Poslavskij, nell’intento di verificare l’eventuale esistenza di una sottostante camera sepolcrale, non furono rinvenuti resti di sepoltura di sorta5. Il principe non fu inumato; quantomeno non lo fu sotto il livello del pavimento interno della torre. Che lo sia stato sopra? E in che modo? Ecco allora che, se un’ipotesi di fondatezza delle informazioni contenute nella peraltro tarda (sec. XVI) notizia di al-Jannabi6 è forse da scartare, in quanto non sono stati individuati resti che facciano pensare a catene fissate alla volta, il motivo – peraltro già noto attraverso Beniamino di Tudela, che nel 1160 avrebbe avuto modo di vedere la bara di Daniele sospesa all’arco del ponte di Susa, e di cui M. van Berchem7 rintraccia anche altri prototipi – oltre a essere in qualche modo suggerito dall’eccezionale elevazione e dalla particolare forma “stellata” dell’edificio, potrebbe trarre origine proprio dall’ingiustificata assenza di tracce di una vera e propria sepoltura.

Altissimo rispetto a similari monumenti funebri coevi, il Gonbad-e Qabus, pur nella sua impressionante semplicità di linee e di concezione, è certamente il risultato di un’attenta opera di progettazione, come testimoniano in particolare il sistema adottato per le giunture tra costoloni esterni e corpo centrale, la forma dei mattoni della copertura della cupola, perfettamente conica8 e la ricercatezza stilistico-formale dell’iscrizione9. L’imponenza delle mura e la fine qualità del materiale impiegato indicano chiaramente che il Gonbad-e Qabus fu concepito per durare nel tempo, e, se ha dovuto attendere nove secoli per ricevere i primi necessari restauri alla base erosa a causa della frantumazione di parte dei mattoni dovuta all’eccessivo peso sovrastante, si può ben dire che le aspettative del committente in questo senso siano state ampiamente soddisfatte.

L’iscrizione circolare in mattoni, nell’usuale lingua araba, situata al l’e sterno a un’altezza di circa otto metri dalla base e riproposta poco al di sotto della cupola, composta di dieci pannelli suddivisi verticalmente dai costoloni, recita: “Nel nome di Dio, clemente misericordioso. Questo è l’elevato mausoleo per l’emiro Shams al-ma‘ali, l’emiro figlio di emiro, Qabus figlio di Wushmgir. Egli ne ordinò in vita la costruzione nell’anno lunare trecentonovantasette [27 sett. 1006 – 16 sett. 1007] e nell’anno solare trecentosettantacinque [15 marzo 1006 – 14 marzo 1007]”. C’è qui una precisa volontà di fornire quel preciso tipo e non un altro tipo di informazioni. Più che di tracce dell’antico paganesimo contraffatte sotto intenti apotropaico-dedi ca tori di ambito astrologico, come ipotizzava M. van Berchem10, in essa si possono ravvisare istanze di tipo astronomico-calendariali, anch’esse certamente compromesse con la tradizione antica, ma in sede tutta ideale: cioè di studio. Lo ziaride, dalla vita avventurosa e dalle ascendenze gloriose, è stato celebrato dagli storiografi e biografi arabografi quale dotto e raffinato letterato, e va ricordato che, in quanto dedicatario degli Athar al-baqiya biruniani, è ben possibile che sia stato lui il primo a leggere in un passo di quel testo arabo la prima registrazione calendariale dell’avita festa del sadè di cui ci sia pervenuta notizia. A corte, oltre che della presenza di vari poeti, egli godeva di quella di astronomi e matematici tra i più rinomati dell’epoca, ed ecco mi pare che in quell’iscri-zione, che poneva irrisolti quesiti a van Berchem, si possa legere la sovrana volontà di celebrare un precisissimo evento cosmico-calendariale: la fine e il contestuale inizio del grande ciclo del calendario iranico. Come dire il “giubileo di Jamshid”.

A tale compimento epocale, consistente nel riproporsi del nowruz del 1 farwardin del calendario solare vago iranico sulla posizione archetipale del 1° Arietis dopo più di millequattrocento anni, si affiancava un altro fenomeno, dipendente esclusivamente da interventi sulla struttura del calendario in questione dettati da logiche tutte umane. Faccio riferimento alla dislocazione dei cinque giorni epagomenici dalla fine dell’ottavo mese – dove erano stati posti nella tarda età sasanide e dove erano rimasti per tutta la prima epoca islamica – alla fine dell’anno, di seguito al dodicesimo mese. La cosa, in una visione iranica, sancisce il ritorno a una condizione di primigenio ordine ideale. La notizia più antica, e piuttosto succinta, al riguardo è contenuta in un passo dello Zij al-jami‘ composto alla fine del sec. X da Kushyar b. Labban, dove trattasi o di “previsione” del grande astronomo o di scolio di copista, in quanto l’opera in questione fu composta antecedentemente al verificarsi dell’ormai imminente ritorno del nowruz del 1 farwardin del calendario iranico sul 1° Arietis, e dove non si fa riferimento ad alcun responsabile del l’operazione: “Al tempo di Kisra b. Qubad Anushirwan il sole entrò in Ariete in adhar-mah [il IX mese] e i cinque giorni ebbero loro sede alla fine di aban [VIII mese]. Quando, centoventi anni dopo, la dinastia dei persiani cadde e cominciò su di loro la signoria degli arabi […] i cinque giorni [epagomenici] rimasero alla fine di aban-mah [VIII mese], e così fino all’anno trecentosettantacinque dell’era di Yazdajird, quando il sole entrò in Ariete il primo giorno di farwardin-mah [I mese] e i cinque giorni furono posti alla fine di isfandarmadh-mah [XII mese]”11. Se la notizia non favorisce l’ipotesi postulante l’esistenza di un preciso responsabile diretto dell’operazione in questione, essa testimonia in ogni caso di una certa sensibilità degli ambienti colti (astronomici) alla questione del calendario iranico.

Anche se si può ora pensare che, in realtà, si sia trattato di esigenza dettata da spontanee radicate tendenze popolari, di cui sono rintracciabili chiari segnali nei fenomeni di sovrapposizione di menonimi constatabili nei calendari popolari del mondo iranico12, nel passato più di uno studioso ha voluto individuare in un qualche personaggio di rilievo il responsabile ufficiale di tale fenomeno, pur in assenza di indizi di sorta e ignorando, data l’epoca, l’indicazione di massima contenuta nella Rivāyat-ī Frāysrōsh (datata 1008)13 che individua in un sultanik di Baghdad a nome Abũ Mansũr14. Si va dal l’ipotesi di S.H. Taqizadeh15 incentrata su Baha’ al-Dawla – probabilmente, ma non è chiaro, per via della preminenza politico-militare del buide – a quelle pressoché coeve di Dh. Behruz16, che puntava il dito sul saffaride Khalaf b. Ahmad, senza però fornire alcuna spiegazione della propria “scelta”, e di S.J. Bulsara17, il quale ne rintracciava il possibile responsabile proprio nel nostro Qabus b. Woshmgir, limitandosi tuttavia a generiche motivazioni vertenti soprattutto sulle presunte ascendenze sasanidi del casato ziaride. Lo studioso affermava quanto segue: “Non è improbabile che l’inter calazione zoroastriana sia stata effettuata sotto il patronato di Kabus Vashmgir del Tabaristan, visto che il suo casato costituiva un ramo della casa imperiale sasanide che sembra aver mantenuto in certa misura vive le pratiche zoroastriane”. Ecco che alla questione potrebbe contribuire in qualche modo l’iscrizione del Gonbad-e Qabus, visto che la data solare in essa registrata corrisponde esattamente a quella dello Zij di Kushyar b. Labban.

Nel periodo individuato dalla sovrapposizione degli anni lunare e solare indicati dalla sapiente giustapposizione dei mattoni delle bande iscritte del mausoleo, che va dal 27 settembre 1006 al 14 marzo 1007, occupa una posizione pressoché centrale il sadè, gran festa sovrana, l’ago della bilancia di un cosmico equilibrio, l’estremo protendersi dell’altalena; e mi piace il dirlo in quest’occasione di “giubileo”. Certo, non si può collegare direttamente la celebrazione del grande ciclo del calendario iranico con quella della festa di fine gennaio, anche perché, in tal caso, il giorno sarebbe stato probabilmente precisato. Quel che nell’iscrizione si vuole sottolineare è l’anno dell’Im pre sa, che, a tutt’oggi, è la data più importante di tutta la storia dell’Heidentum iranico conservatosi in età islamica. Meraviglia dunque non poco che, nel l’arco di un secolo, in sede di ricerca intorno alle ipotizzate funzioni astronomico-astrologiche dell’opera di quel grande principe astronomo, una cosa così ovvia non sia mai stata sospettata.

Nella torre di Qabus, dunque, la celebrazione di un incipit, e non di una conclusione. Se in quest’occasione preferisco, forse più modestamente, parlare di sadè è perché, diversamente dal nowruz, il sadè è una promessa. Ed eccoci, allora, a certa lirica persiana, dove la festa compare, personificata in elegante metafora, come l’avanguardia delle schiere della primavera, che, armate di pennelli, rinnoveranno di lì a poco il mondo intero. In quanto nunzio dell’arrivo imminente di Re Anno Nuovo – l’angelo, si sa, è per eccellenza foriero di lieta novella – il sadè è una buona, anzi la migliore occasione per fare gli auguri ai grandi del regno… E di scambiare i regali, come ricorda al-Naysaburi in alcuni versi della sua Tatimmat al-yatima, qui riproposti nella resa italiana del Maestro:

È ogni dono gradita sorpresa, lo so, tra le genti, sia quel dono grandioso, o sia cosa da nulla.

Così quanto può, per il sadhaq, si chiede a ciascuno

Il sadè – o sadhaq che alla araba dir si voglia o, ancora, saya alla maniera dei turchi – è festa notturna. È l’argilla di una speranza da cuocere al vivido fuoco che rischiara le tenebre. E a tal punto la luce è connaturata alla fiamma che quella calda promessa di vittoria si veste dei panni di un’epifania luminosa, solare, di un vero Natale: il Grande Compleanno. Per gli arabi di un tempo ciò era cosa piana: oltre a chiamare la festa con il nome persiano, debitamente arabizzato come sopra, la indicavano anche come la notte del milad, la notte di Natale, considerandola l’omologo persiano dei phota dei cristiani per l’Epifania, il Natale originario di Cristo, rimasto tale tra gli armeni. Epifania che è, sì, celebrazione del tributo dei Magi, riconoscimento della realtà eterna e triplice del Salvatore, ma anche commemorazione del Suo primo miracolo, quello delle nozze di Cana, delle cose semplici trasformate in inebrianti estratti, operazione degna dei soli grandi maestri. Nonché del Battesimo di Gesù, il primo manifestarsi della Sua natura divina, la Ri-na scita tout court, segnata dalla colomba di fuoco dello Spirito Santo che scende sulle acque del Giordano. Un primo che annuncia vittoria. Magi che riconoscono nel singolo un Tre (anche là un bel triangolo). Acqua che si fa vino; acqua come elemento essenziale al disvelamento del fuoco. Ma acqua del Giordano. Non è forse un caso che il nostro Maestro sia stato battezzato con le acque di quel fiume archetipale.

E così, se il Caso, questo insondabile ordinatore di tutte le cose, ha voluto che superassimo un mowled per approdare alla ciclica epifania iranica di fine gennaio, si può pensare – e ben a ragione – che in fondo è stata una fortuna.

Altri centomila di questi sadè,

Maestro! E cento ancora, e cento!


1 G. Scarcia, Scirin. La Regina dei Magi, Milano, 2004.

2 Il testo, nella traduzione di B. Dorn, è riportato in E. Diez, Churasanische Baudenkmäler, Berlin, 1918, I. Bd., p. 40, dove compaiono numerose altre fonti relative al monumento.

3 The monumental Inscriptions from Early Islamic Iran and Transoxiana, Leiden, 1992, p. 65.

4 Ibidem.

5 Cfr. Diez, op. cit., p. 42.

6 Considerata fantasiosa e inacettabile da V. Bartol’d in nota 22 di p. 265 del suo “Bašnja Kabusa kak pervyi datirovannyi bamyatnik musul’manskoj persidskoj architektury”, in Sočinenija, IV, Moskva, 1966, pp. 262-266.

7 Cfr. n. 2 di p. 102 del suo “Die Inschriften der Grabtürme”, alle pp. 87-116 di E. Diez, op. cit.

8 A. Godard, Survey of Persian Art, III, pp. 972-973; per alcune rettifiche sulle misure dell’edificio v. M.S. Bulatov, Geometričeskaja garmonizacija v architekture Srednej Azii IX-XV vv., Moskva 1978, pp. 90-92.

9 Blair, op. cit., p. 65.

10 Op. cit., p. 106.

11 Cfr. L. Ideler, Technische Chronologie, vol. II, Berlin, 1825-1826, p. 547 e 625.

12 Cfr. le pp. 37-51 e 129-142 del mio Forme “neopersiane” del calendario “zoroastriano” tra Iran e Transoxiana, Eurasiatica n. 64, Venezia, 2000.

13 Pubblicata a Bombay nel 1969 da B.T. Anklesaria.

14 “Abũ Mansũr (?)”, si chiede J. de Menasce, in Cambridge History of Iran, vol. IV, p. 553.

15 In B.S.O.S., IX-4, pp. 917-918.

16 Taqwim wa ta’rikh dar Iran…, Iran kuda n. 15, Tehran, 1331/1952-1953, p. 56.

17 Khareghat Memorial Volume, p. 188 n. 3 e p. 191.