L'Onagro Maestro |
::TRANSOXIANA:: |
Seguono alcuni dettagli (ridotti a tre) di una turcologia fondata da Gianroberto Scarcia, con riflessi, contraccolpi. Due almeno dovrebbero essere evidenti, benché fastidiosi: infatti, si cerca di scordarli, ridimensionarli, non vederli più, e si elide un lascito.
Il prisma (ho bisogno di uno spicchio di figura solida, ma è sbagliato, provvisorio l'estrapolarlo; andrà ricomposto in un intero) fornisce pretesti a tale fine, non presentando neppure esso facce e basi tutte insieme a chi non voglia sporcarsi le mani ruotandolo, o scomodarsi girandogli attorno l'occhio. Si preferisce anzi rovesciarlo di colpo e girargli alla larga. Tuttavia, perfino quella base scoperta, all'aria, imbarazza, rievoca, umilia: è spettro della figura intera; è complesso; è intreccio di vicende personali e scolastiche pubbliche. Ce n'è poi un terzo, e tocca a me d'accennarci, volentieri.
Nasce la consapevolezza di una responsabilità, al solito nei due sensi, da lui esternata, assorbita, trasmessa, e trasferibile senza alleggerirsi la coscienza: chi si propone e chi si ritrova tale ("turcologo"), sarà disposto a subire ricadute di emanazioni, ritorni. Fin qui ci siamo: la coscienza s'interroga inquieta e deve restare inquieta.
1) Su perno, epicentro, iranico e iranistico, G.S. intendeva circondarsi di periferia, di un'onda tinta o densa di turcologia, quando con altri lavorò in un collegio, sensibilizzato all'uopo, a istituire in questa facoltà di lingue e letterature un insegnamento di turco. Circolo, cerchia legittima (arabo, persiano, e perché non turco? e varianti allofone ancor più sfumate). Fondazione minima per un ambito islamistico, e corollario a sfera d'influenza, di potere anche arrogante, ma ancor più, andrebbe ammesso senza riserve, di competenze, passioni.
Se quell'onda non ha spuntato cresta e sfondato, ciò non dipende da murazzi frangiflutti opposti da lui; piuttosto, dal primato iranistico mimetizzato, da umane scelte, calcoli e investimenti ritenuti più centrali, produttivi; da disistima non ricambiata.
2) Dentro quel perno, epicentro, stava già un nucleo turcologico intimo, coltivato dal propugnatore, del quale non elencherò né commenterò, in occasione e per data effimere, i titoli specifici, o quelli meno appariscenti eppure pertinenti. Chi vuole, li riconosce; chi non lo riconosce turcologo - venendo così a intaccare il delicato sperimentalismo, l'operato dell'intera macchina da lui avviata, da smontarsi, sento dire e vedo fare - li neghi, prego. Da parte mia, il brandirli a decadi fisse mi pare ostentazione di scudo rituale, levato a difendermi; quando si tratta di abituale, costante confronto. Provvede già lui, in persona, a promuoversi, e bisognerebbe volerli leggere, quei saggi. Invito a farlo, riprovo.
Di fatto, anche alla sua iranistica è connaturato il cosiddetto Turan. Sembra fuga nel mitologico, a ricomporre trite opposizioni epiche; invece, è pratico agire, certo imposto dall'ineludibile. Non esiste sconfinamento, aggiungo, per chi scruti quelle terre come soggette, condannate a contiguità, mediazioni, imposizioni culturali reciproche (fatte artificiosamente unilaterali). Donde le Arabie, le Russie, i Caucasi, emanati e dominati dall'altopiano iranico, trattati con identico, interessato piglio, linguaggio: emblematica la sede di traduzione in italiano. Quasi stessa stoffa, pasta, terra appunto, stirate, plasmate, irrigate a far esprimere loro ciò che gli suggeriscono balbettanti conati, motivi familiari, per insegnare a esprimersi nel modo giusto. Tale, credo, l'opinione sua tenace, sottesa, dove la storia dell'arte sarebbe calligrafia traduttoria; (ne risente anche la versione dal persiano, modello avvolgente, vezzo pervasivo).
3) Inoltre1, esiste quella terza faccia, da G.S. a me mai rinfacciata, che io voglio goffamente ed esemplarmente rigirare sotto gli occhi dei cortesi silenti, o degli indifferenti, o indignati. Affermo dunque che nei miei scritti (da me firmati) stanno sue parole, suggestioni, suoi giri di frase, di versi: non da imitazione (avremmo smorfie, fiacca mimica), bensì da regalo coi fiocchi (non firmato). Che cosa farne? Dovrei restituirlo al mittente, del quale s'individua la scrittura? Dovrei anch'io ripulirmi della macchia? Non metterò ipocriti cappelli alla tache, per rivestirmi di tâche correttiva, moralistica. Il compito è un altro, è lezione recepita, interpretata nei propri limiti, nel disagio di quel privilegio allora immeritato.
Qui si darebbe la degnazione di un'occhiata, a palpebre socchiuse, a fronte corrugata fra compassione e saccenza: ecco, si spiega, si conferma con quello la smorta produzione di questo, la schiuma dell'onda risucchiata nel niente della sabbia, il pallore della farina, l'oppressione innaturale e sgonfiata del sacco scucito (anziché osservare quanto si superi un insegnamento, indirizzati al dono, di farina, di spighe sgranate, per un campetto assediato dalla sterilità di approdo). Ci risiamo: quel prisma sfilato non andrà rigirato, apprezzato e rimesso al suo organico posto, ma buttato giù, a coprire un'ombra smunta. Qualcosa non quadra, o quadra troppo2. Vale però la pena che io mi ripeta, finché posso: questa turcologia non conterà, ma intanto c'è, a statuto (e stipendio). Peccato che non sia riconosciuto al campo, certo asfittico, qualche eventuale peso specifico dei prodotti. È un destino, relativo; una sorte, condivisa; una colpa, da far scontare; un vantaggio iniziale ammortizzato.
Altrove, mando ripetuti pensieri al Maestro, anche per i suoi primi settanta anni. Ora, depresso, ma orgoglioso di un'amicizia, di un'eredità, pronuncio spontanee formule: grazie, fa pressappoco lo stesso. Chi più appresso prima e poco poi, e chi intensifica il segno alla lunga. La banalità3 possa servire a tirare avanti e campare a chi si ritrova banale sull'abisso della piattezza penosa. Dopo le operazioni di carico e scarico, sul cammino resta - esautorato - quel sacco, di farina, di ciuffi di spighe, di grato affetto. Kerivandy, bu; doveva essere una staffetta, rimane un testimone.
1 Oltre cioè la volontà scientifica, affettiva, politico-accademica d'impiantare "complementari" discipline, con quella turcologia non abbastanza visibile, o abbastanza invisa. Può darsi a causa d'inadeguata dignità, di oscura fama del fortunato e basso manovale, avvantaggiato, messo, lasciato poi lì a tenere su, da solo - privilegio impegnativo - un magistero che non poteva elevarsi a scuola (del resto inutile, visti gli sviluppi inibiti della ricerca in generale). Ma più probabilmente perché così fa comodo (c'è, ma non conta negli equilibri dati dal peso, della carica), e ciò adesso serve a rimediare a eccessi, inflazioni, sdoppiamenti, raddoppi, colpi di mano altrui, di lui, "colpevole". Macchie coperte rendendosi più attendibili interlocutori nelle contrattazioni, nella gestione ricomposta. Qualcuno paghi, ottimo è il risparmio, le finanziarie tagliano; anche questo è un esito, non solamente turcologico.
2 Ricorderò che in Roma una collega minacciava di ridurmi a pezzettini, e che a Venezia si procede a ingessarmi a polpetta (non l'unica): il che sarebbe un impiego di quella farina. La verità veneziana supera la potenzialità-virtualità romana, viene da commentare con un sorriso stanco, amaro, avvertendomi bersaglio di frecce che vili trafiggono contro-figure, "inadatte", anche a proteggere il centro preso di mira. Risultati emergenti dal conto e gratifica avvilente.
3 Fatta di numeri e immagini, di tre, prismi estrapolati e riposti, chicchi non seminati al meglio.